25 de abril de 2024 19:40

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Exposição sobre a família Scaligera

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Statua equestre di Cangrande

Terzogenito di Alberto I, dominus di Verona, e di Verde da Salizzole, Canfrancesco, detto sin dall’infanzia “Canis magnus”, nacque il 9 marzo del 1291. Circa la sua infanzia e adolescenza, si hanno scarse informazioni documentarie e cronistiche: nel poema dello storico vicentino Ferretto dei Ferretti si descrive Canfrancesco come un giovane prodigioso che, non divertendosi a giocare con gli amici, preferiva utilizzare le armi e sognare imprese cavalleresche.

Si sono fatte varie ipotesi sul suo nome: la leggenda vuole che prima di darlo alla luce nel 1291, la madre, Verde da Salizzole, sognò un cane che coi suoi latrati riempiva la Terra. La cosa venne interpretata dagli astrologi di corte come un segno di buon auspicio per il futuro del nascituro e si aggiunse così la parola cane al nome Francesco: Canfrancesco.

Potrebbe anche essere stato battezzato Canfrancesco in omaggio allo zio Mastino, il fondatore della dinastia. Il tema canino venne tra l’altro abbracciato con grande entusiasmo e, da Cangrande in poi, venne utilizzato dai Signori di Verona nei nomi, negli elmetti, nei monumenti e nei sepolcri.

Gengis Khan

Un’altra ipotesi lega il nome alla moda in auge in Italia di dare nomi legati alla nomea dei signori mongoli ilkhanidi di Persia, talché Cangrande significherebbe nient’altro che Gran “Khan”, termine che presso le popolazioni orientali stava a indicare il capo, il leader. Nel ‘200 erano frequenti i viaggi di mercanti, veneziani in particolare, nelle terre dominate dai tartari di Gengis Khan che non molti decenni prima della nascita di Cangrande era giunto coi suoi tremendi eserciti alle porte dell’Europa. Marco Polo fu ospite di un altro Khan, Kublai, del cui regno, il Katai, narrò lo sfarzo e le ricchezze nel suo Il Milione, lettura diffusa e apprezzata nelle corti del Trecento.

Ma sembra anche che Cangrande amasse ricondurre l’origine della famiglia ad uno dei capi militari “magici e invincibili”, dalla testa di cane, “alleati dei longobardi”, da individuare in qualche capo militare àvaro (turco) che, avente appunto il titolo di Khan, partecipò alla conquista longobarda (partita dall’attuale Ungheria) dell’Italia.

Alberto I della Scala già con il secondogenito aveva voluto usare il nome di un grande guerriero del passato, per altro assai legato alla storia di Verona: Alboino. Appare quindi più che plausibile che anche con l’ultimo dei suoi figli Alberto decidesse di usare un nome di grande impatto evocativo per un cavaliere medievale.

Alberto I della Scala curò personalmente l’educazione militare (e non) del figlio, che infatti provava per il padre un grande affetto, e da lui ereditò le doti di condottiero e cavaliere: proprio da questi venne insignito del titolo di cavaliere mentre era ancora bambino, insieme al fratello Bartolomeo e ai parenti Nicolò, Federico e Pietro, durante la festa di San Martino nel novembre del 1294, festeggiando in questo modo la vittoria contro Azzo VIII d’Este e Francesco d’Este. Nella stessa occasione fu progettato un suo matrimonio con una figlia di Bardellone Bonacolsi; nel 1298 è menzionato, al pari di altri membri della famiglia Della Scala, nel testamento di Bonincontro vescovo di Verona. Tre anni più tardi Canfrancesco fu invece assente, a differenza dei fratelli maggiori, al testamento del padre, nel quale viene affidato alla tutela del primogenito e dominus Bartolomeo.

Il padre morì nel 1301, quando Canfrancesco era poco più di un bambino, per cui venne affidato alla custodia del fratello Bartolomeo, che divenne il nuovo Signore di Verona. Fu sotto il suo principato che per la prima volta Dante Alighieri venne ospitato nella città scaligera, dopo che fu esiliato da Firenze. Bartolomeo, dopo aver consolidato il potere della famiglia, morì prematuramente il 7 marzo 1304: gli succedette il fratello Alboino, più incline alla mediazione e alla pace che alla guerra. Cangrande, spesso al suo fianco, mostrava, diversamente dal fratello, un temperamento cavalleresco e ambizioso e proprio per questo motivo ottenne di poter condividere il peso del potere, anche se in rapporto di subordinazione rispetto al fratello, vista la sua giovane età (era appena quattordicenne).

Azzo VIII d’Este

Nell’aprile del 1305 Azzo VIII d’Este, Signore di Ferrara, Modena e Reggio nell’Emilia, si sposò con la figlia di Carlo II di Napoli divenendo così un importante esponente della fazione guelfa dell’alta Italia, contrastato però da una lega formatasi il 21 maggio e composta dalle signorie di Verona, Brescia e Mantova. L’8 novembre si aggiunse alla lega Parma, mentre Modena e Reggio Emilia si aggiunsero l’11 febbraio 1306: non solo, anche Francesco d’Este, che dopo il matrimonio del fratello Azzo VIII non poteva più ereditare il potere, si aggiunse all’alleanza. Nel luglio dello stesso anno Alboino conquistò Reggiolo e invase il territorio ferrarese, Azzo fu così costretto ad abbandonare Ferrara dove, però, i suoi seguaci riuscirono a fermare gli assalti nemici.

Visto che non si riuscirono ad ottenere risultati di rilievo l’esercito mantovano-veronese si ritirò dai territori ferraresi per andare in aiuto di Matteo I Visconti che stava cercando di riappropriarsi del potere a Milano dopo essere stato cacciato dai guelfi Torriani. In agosto l’esercito venne affidato a Cangrande che lo portò non lontano da Bergamo, dove il Visconti, radunati 800 cavalieri e 1.500 fanti, si unì alle truppe alleate. Guido della Torre preparò un forte esercito e riuscì a mettere in fuga Matteo Visconti, a quel punto Cangrande non vedeva motivi per continuare l’azione di forza e decise di ritirarsi.

Il 14 marzo Verona (alla cui lega si era nel frattempo unita anche Ravenna) riprese la guerra contro Azzo, mentre il mese successivo venne siglata la pace con Milano. A Ferrara si unì Cremona, che dopo la sua entrata in guerra vide il proprio territorio saccheggiato dai cavalieri veronesi. Dopo gli attacchi al territorio cremonese i cavalieri rincasarono a Ostiglia, dove furono raggiunti da Azzo insieme alle truppe ausiliarie di Napoli e Bologna. Cangrande e Alboino raggrupparono un esercito di 10.000 fanti e 1.400 cavalieri per difendere la città, ma nonostante questo Ostiglia venne conquistata e la flotta mantovano-veronese sul fiume Po catturata. Azzo però morì e lasciò il potere al nipote Folco, ma, ritenendo ingiusto questo passaggio, Francesco d’Este chiese a Papa Clemente V di fare da arbitro per la contesa.

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Verona e Mantova non avevano quindi più motivi per continuare la guerra vista la nascita di lotte intestine a Ferrara, che aveva così perso il ruolo di importante centro guelfo dell’alta Italia: Scaligeri e Bonacolsi chiesero e ottennero il mantenimento dello stato precedente all’inizio della guerra. Durante la guerra morì la madre Verde di Salizzole per cui unico parente stretto di Cangrande ancora in vita rimase il fratello Alboino.

Nel 1306-07 Canfrancesco effettuò qualche investitura feudale, tramite procuratori; nell’aprile del 1306 fu investito a sua volta (col fratello Alboino e il cugino Chichino) di un feudo dal vescovo di Vicenza. La sua prima comparsa in una campagna militare intrapresa da Alboino – signore dal 1304 – potrebbe essere fatta risalire al marzo del 1307, quando Cangrande ed il fratello guidarono le truppe scaligere a Serravalle Po.

Nel marzo 1308 a Parma era iniziata una lotta interna tra guelfi e ghibellini, così Mantova e Verona, alleatesi con Enrico di Carinzia e Tirolo, Otto III di Carinzia e i Castelbarco (questi ultimi storici amici di famiglia degli Scaligeri), decisero di intervenire con l’intento di ostacolare i guelfi parmensi, riuscendo a sconfiggere l’esercito nemico. Il 19 giugno l’esercito parmense subì un’altra sconfitta, questa volta a opera di Giberto III da Correggio, si avvicinava dunque la possibilità di portare la città sotto il controllo ghibellino. E infatti alla fine della guerra tornarono ghibelline sia Parma che Brescia, anche questa in parte protagonista della guerra. Il giovane Cangrande partecipò anche a questa guerra combattendo sotto l’esercito veronese, anche se il comando supremo delle forze armate spettò al più anziano ed esperto fratello.

Molti cronisti e storici, specie antichi, hanno insistito ripetutamente sulla predominanza al comando di fatto che Cangrande avrebbe esercitato nei confronti di Alboino, mentre è al contrario sicuro che sotto il profilo istituzionale era Cangrande ad affiancare, in posizione subordinata, il fratello: documenti diplomatici del 1308-09, provenienti tanto dalla Cancelleria scaligera quanto da quelle estense e tirolese, citano in primis Alboino, e Cangrande come “capitaneus penes eum” vale a dire con la stessa formula che designava, nell’ultimo decennio del Duecento, Bartolomeo nei confronti del padre Alberto.

Cangrande era conosciuto per la sua giovialità (anche se con un temperamento furioso nelle occasioni in cui qualcosa non andava come voleva lui), disponibile con le persone di tutti i ceti sociali. Egli era un oratore eloquente, tanto che l’argomentazione, le discussioni e il dibattito furono alcuni dei suoi passatempi preferiti, oltre alla caccia. Il suo coraggio in battaglia è ben documentato, e, negli anni che seguirono, la sua misericordia verso i nemici sconfitti impressionò anche i suoi avversari.

Nel 1308 Alboino decise di condividere il potere con un Cangrande ormai diciottenne, che fu quindi proclamato Capitano del popolo veronese e divenne coreggente e Signore di Verona. Nuovo obiettivo dei due Signori divenne indebolire la guelfa Milano, ancora asservita ai Della Torre. La prima opportunità arrivò dall’insurrezione antimilanese scoppiata a Piacenza nel 1309, durante la quale i piacentini riuscirono a scacciare i milanesi.

Nel 1308 si celebra anche il matrimonio di Cangrande con la prima donna di cui si innamorò, Giovanna d’Antiochia, figlia di Corrado di Antiochia e sorella di Costanza, già moglie di Bartolomeo: un altro legame dunque dei Della Scala con la discendenza dell’Imperatore Federico II. Cangrande non ebbe figli da costei (che sopravvisse a lungo al marito: morì infatti a Verona nel dicembre del 1351).

Il 13 giugno 1309 Piacenza formò una lega con Parma, Verona, Brescia, Mantova e Modena allargando così il conflitto. Gli Scaligeri inviarono i 500 migliori soldati veronesi a Piacenza dove sconfissero l’esercito nemico, mentre Parma inviò l’esercito, supportato da truppe veronesi, contro la guelfa Fidenza, ma il cattivo tempo obbligò a interrompere l’assedio e a iniziare le trattative per la pace, che sarebbe stata poi firmata entro la fine dell’anno.

Nell’estate del 1310 eserciti veronesi furono impegnati a sostegno di fazioni e famiglie ghibelline di città padane: assieme ai Bonacolsi – al tempo, e sino al 1328, fedeli alleati di Cangrande -, prestarono aiuto ai Reggiani estrinseci. Si venivano così consolidando per Cangrande, nella linea politica “interventista” già impostata da Alberto alla fine del Duecento, rapporti destinati a durare – come, appunto, quello coi Sesso – poi stabilmente presenti a Verona e Vicenza per tutto il Trecento.

Ritratto di Enrico VII di Lussemburgo – Tino di Camaino – Statua dal monumento funebre di Arrigo VII (1313, Duomo di Pisa)

Nell’estate del 1310 l’Imperatore Enrico VII di Lussemburgo preparava la sua discesa in Italia, alimentando le speranze dei ghibellini, che auspicavano una sua restaurazione e con l’intento di conciliare la parte guelfa con quella ghibellina sotto il vessillo di un impero unito. Alla comparsa in Italia dell’Imperatore (novembre del 1310), i domini veronesi – che già avevano manifestato il loro orientamento accogliendo con onore, nel luglio, i legati imperiali – inviarono ad Asti i propri rappresentanti, ovvero il giudice Bonmesio Paganotti e Bailardino Nogarola. L’assenza di Alboino e di Cangrande all’incoronazione milanese è stata ritenuta casuale (era del resto presente il vescovo di Verona, Tebaldo), ma va probabilmente collegata alle iniziative dei fuoriusciti guelfi veronesi, che puntavano ad ottenere l’arbitrium pacis ed il rientro in città (al che gli Scaligeri si opposero con fermezza, allegando il bando imperiale del 1239 contro di loro). A Verona venne nominato vicario imperiale Vanni Zeno da Pisa, credendo così di poter rendere attuabile il ritorno in città dei Sambonifacio, fatto inaccettabile per gli scaligeri, che in segno di protesta rinunciarono addirittura alla signoria, sicuri che il popolo veronese non avrebbe accettato di perdere i propri signori, come infatti accadde. Alla fine l’Imperatore, pentito dell’errore commesso, si trovò a fare affidamento sul sostegno dei ghibellini per raggiungere i suoi obiettivi: dovette presto ricredersi, e, il 7 marzo 1311, decise di nominare Cangrande e Alboino, primi in Italia, vicari imperiali.

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L’araldica scaligera con l’aquila imperiale

A questo punto i due possedevano un doppio riconoscimento della loro autorità: assommarono l’investitura del Comune a quella dell’Imperatore. Il lato negativo del vicariato era però quello finanziario, infatti costava molto denaro ed era loro dovere avere un contingente di soldati che potessero scortare il sovrano o comunque servire in Lombardia. Il Comune di Verona promise ad Enrico VII 3.435 fiorini d’oro, mentre altri 3.000 fiorini furono spediti al vicario di Lombardia Amedeo di Savoia.

Quanto contasse la nuova posizione si vide comunque poche settimane più tardi, quando Cangrande prese parte personalmente, col rappresentante di Enrico VII, all’assoggettamento di Vicenza (sin allora controllata da Padova) all’Impero.

Non era ancora l’insignorimento scaligero di Vicenza, ma non fu comunque dovuto al caso che il secondo vicario imperiale della città berica fosse un sicuro amico dei Veronesi come Aldrighetto Castelbarco. Nel frattempo la confisca dei beni e delle giurisdizioni dei padovani nel vicentino scavava un solco incolmabile fra questa città e l’Imperatore, e contribuiva al prevalere di posizioni più rigidamente antimperiali, e quindi antiscaligere: si pongono alcune delle condizioni che faranno della lotta con Padova una delle costanti dell’attività politico-militare di Cangrande per oltre quindici anni.

Nell’aprile del 1311 Vicenza si ribellò a Padova, ed Enrico VII prese la questione come pretesto per costringere il Comune padovano ad accettare le sue richieste in seguito ad un attacco. Il comandante delle truppe imperiali raggiunse Verona con 300 cavalieri: i due fratelli scaligeri parteciparono all’impresa con le truppe ausiliarie di Verona a Mantova, ed il 15 aprile invasero facilmente Vicenza, mentre la rocca in mano ai padovani venne conquistata da Cangrande con truppe leggere.

Il castello di Brescia

Il 14 maggio gli Scaligeri giunsero all’accampamento di Brescia, dove la fazione guelfa si era impadronita del controllo della città in spregio ad Enrico VII. Durante l’assedio perirono per un’epidemia numerosi soldati: tra questi si ammalò anche Alboino, che fu portato a Verona da Cangrande, il quale, reclutata nuova fanteria e cavalleria, tornò a Brescia. Fu un momento decisivo del consolidamento del prestigio scaligero, e personale di Cangrande, all’interno dello schieramento ghibellino, infatti per questo merito gli venne affidato il comando supremo dell’esercito, anche se la città si arrese solamente il 16 settembre 1311. Dopo aver passato del tempo con il fratello ammalato Cangrande partì insieme ad una scorta per raggiungere Enrico VII a Genova. Cangrande fu raggiunto però dalla notizia delle gravi condizioni in cui versava il fratello, dovette quindi tornare a Verona, anche per via della possibile minaccia che rappresentava Padova. La notte tra il 28 ed il 29 novembre 1311 Alboino morì e Cangrande divenne l’unico Signore di Verona, all’età di ventidue anni. La salma di Alboino venne posta accanto a quella dal padre Alberto I.

Non vi fu alcun problema in merito alla successione: la congiuntura dinastica va del resto annoverata fra i motivi non secondari della tranquillità interna del regime scaligero, e dunque anche dei successi militari e politici di Cangrande, libero di allontanarsi anche a lungo da Verona. Nella famiglia scaligera non figuravano, all’epoca, che due maschi legittimi ed in età adulta: Federico del fu Piccardo di Bocca, più anziano di Cangrande di qualche anno, appartenente ad un ramo collaterale; e Francesco detto Chichino del fu Bartolomeo, nipote del Della Scala. L’uno e l’altro furono tra i suoi principali collaboratori, con un rilievo maggiore forse per Federico, sino al 1325 (quando fu esiliato), ma con un ruolo di prestigio anche Chichino, che fu piuttosto attivo sul piano militare. Il patrimonio di ambedue giunse poi nel 1325 nelle mani di Cangrande – per confisca in un caso, per eredità, si presume, nell’altro – e anche questa circostanza favorì la compattezza familiare.

Quando Cangrande assunse il potere, Verona era ancora un Comune modesto, se messo in confronto con il potente Comune di Padova, tanto che lo scaligero non era nemmeno in grado di pagare il tributo ad Amedeo d’Aosta. Nonostante ciò egli adempì sempre ai suoi doveri nei confronti dell’Impero: lo dimostrò ancora una volta quando i guelfi bresciani tentarono di far insorgere la città, e Cangrande intervenne per sventare il complotto. Cangrande si rivelava, dunque, fondamentale per la causa ghibellina.

Cangrande, l’11 aprile 1311, si era recato a Vicenza, dove assunse il vicariato della città, grazie ad un atto di opportunismo politico, approfittando delle controversie della città con i suoi ex-padroni di Padova. Enrico VII aveva bisogno di un sostegno economico per raggiungere Roma, per cui diede la carica allo scaligero dietro il pagamento di una forte somma di denaro, che riuscì in breve tempo a guadagnarsi la stima del popolo.

Il problema dell’acquisizione del controllo del territorio vicentino si poneva ora solo in termini militari. Il consolidamento dell’autorità veronese fu portato avanti con fermezza negli anni successivi, nonostante i tentativi compiuti dai guelfi locali, appoggiati dai padovani, nel marzo-aprile del 1312, e poi nel 1314 e 1317. Oltre al prestigio di cui godeva Cangrande presso la nobiltà militare locale (contrapposto ai sospetti che si nutrivano a Vicenza contro il ceto dirigente padovano, più che mai desideroso di recuperare i beni fondiari e i castelli detenuti fino al 1311, quando erano stati confiscati per la ribellione all’Impero), svolsero allora un ruolo importante sia l’abile operato di prestigiosi collaboratori come Bailardino Nogarola, podestà di Vicenza per oltre un decennio, e di influenti giudici, come Bonmesio Paganotti, sia il controllo prontamente acquisito sull’episcopato vicentino, occupato per vari decenni da veronesi.

Anche se mancano dati precisi, sembra che il ceto dirigente vicentino sia stato sostanzialmente rispettato, dal punto di vista patrimoniale. In ogni caso, in proporzione ai danni gravissimi ripetutamente subiti dal territorio e all’impegno militare (frequente nelle cronache è il ricordo della partecipazione dei vicentini comandati dal Nogarola alle imprese militari di Cangrande) e forse fiscale, si deve ritenere sostanzialmente soddisfacente l’assestamento raggiunto, già dominante Cangrande, dai rapporti fra la signoria scaligera e Vicenza. Fu, per lo “Stato” scaligero, un’acquisizione definitiva.

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I vicentini, sicuri dunque dall’aiuto scaligero e imperiale, iniziarono a irritare i padovani, arrivando addirittura a deviare il corso del fiume Bacchiglione, danneggiando così l’economia della città guelfa.

Alla fine Padova acconsentì alla nomina di un vicario imperiale e al pagamento di 20.000 fiorini annui in cambio di numerose concessioni e al pagamento da parte di Vicenza dei danni subiti dalla deviazione del fiume: il consiglio vicentino però si rifiutò di pagare, dando così il via a numerose liti su varie questioni, in particolare sulla restituzione a Padova di alcuni fondi rurali. I padovani mandarono degli ambasciatori all’Imperatore perché risolvesse la questione: Enrico cercò di riappacificare le due città, imponendo comunque a Vicenza di riaprire il corso originario del Bacchiglione.

Il 28 gennaio 1312 giunse a Padova la notizia ufficiale che Cangrande era stato nominato vicario di Vicenza, così il consiglio cittadino decise di riunirsi, soprattutto per via delle insistenti voci che parlavano di Padova come obiettivo dello scaligero: durante la seduta del 15 febbraio il consiglio decise di dichiarare guerra a Verona, mentre in strada la folla distruggeva tutto ciò che era insignito dell’aquila imperiale, e presto cominciarono le prime ruberie in territorio vicentino. La sfida all’Imperatore, che aveva sostenuto l’elezione di Cangrande a vicario imperiale di Vicenza, gli diede il pretesto per muovere guerra a Padova.

Nella primavera del 1312 l’esercito padovano iniziò ad attuare brevi incursioni in territorio vicentino e veronese, e fu così che Cangrande per diciotto mesi venne messo in difficoltà, anche perché Padova era un comune ricco e potente, con forze militari maggiori di quelle di cui aveva a disposizione in quel momento Cangrande. Nonostante ciò riuscì a portare il grosso dell’esercito veronese in territorio padovano, dando inizio ad una serie di devastazioni. Le prime incursioni veronesi videro una sconfitta presso Camisano Vicentino, e successivamente la conquista del castello di Montegalda, importante baluardo per Padova. Questo venne quindi dotato di una guarnigione, mentre poco dopo Cangrande tornò a Verona, anche se i padovani presto iniziarono la controffensiva da Montagnana, da cui raggiunsero e devastarono Minerbe, Pressana e Legnago, mentre Cologna Veneta venne incendiata.

A marzo le truppe padovane si trovavano tra Vicenza e Verona, minacciando così entrambe le città: i padovani decisero di dirigersi su Vicenza, sapendo che all’interno della città si stava sviluppando il complotto dei cittadini guelfi. Alcune sentinelle veronesi videro l’avanzata nemica e si precipitarono ad avvertire il comandante della città, Federico della Scala. Intanto le prime scaramucce tra truppe padovane e vicentine si ebbero a Torri di Quartesolo, dove i secondi vennero respinti, subendo notevoli perdite. Cangrande fu informato della disfatta delle truppe vicentine, raggiunse quindi la città, ordinando di chiudere le porte e di arrestare tutti i sospetti traditori: questi in parte riuscirono a fuggire, e in parte furono catturati, e quindi o esiliati o condannati a morte.

Wernher von Homberg, Codex Manesse folio 43v

I padovani, persa la possibilità di conquistare Vicenza, decisero di attaccare Marostica, che cedette grazie all’arrivo di rinforzi da Bassano del Grappa, e successivamente numerosi borghi e villaggi vicentini. Per vendicarsi Cangrande giunse con le truppe a pochi chilometri da Padova, di cui distrusse i sobborghi, mentre Montagnana venne conquistata e incendiata: Padova inviò immediatamente aiuti all’importante città, per cui Cangrande fu costretto a ritirarsi verso Vicenza. Intanto i padovani conquistarono e distrussero a loro volta Noventa Vicentina. Divenendo la situazione critica Cangrande fu costretto a rivolgersi al luogotenente di Lombardia Wernher von Homberg, il quale arrivò con truppe nuove e razziò alcuni villaggi, anche se presto dovette tornare in Lombardia, dove erano scoppiate alcune insurrezioni.

Feltre, Treviso, Belluno e Francesco d’Este si allearono con Padova, formando così un esercito di 17.000 uomini: le truppe, il 1º giugno 1312, partirono per Quartesolo, dove si accamparono. La fanteria leggera fu mandata in spedizione a razziare i campi e i villaggi vicino Vicenza. In città Cangrande guidava 800 cavalieri e 4.000 fanti, per cui i padovani, che non si sentivano pronti per attaccare direttamente la città, decisero di proseguire lungo il Bacchiglione, dato che ormai Padova soffriva per la mancanza d’acqua, ma fu per loro impossibile riportare sul corso naturale il fiume, dato che il luogo era stato protetto da fortificazioni e torri. Fu lì che Cangrande riuscì a prendere di sorpresa alcune truppe nemiche, di cui morirono, durante la battaglia, circa 400 soldati. I rinforzi padovani riuscirono però a scacciare i veronesi. Nonostante la vittoria i padovani non riuscirono a deviare il corso del Bacchiglione nel suo normale letto, mentre Cangrande cercava di spingerli verso Castagnaro. I padovani si portarono successivamente nuovamente verso il territorio vicentino, dove depredarono alcuni villaggi, portando poi il bottino a Bassano del Grappa, in seguito a una sconfitta in una piccola battaglia con Cangrande e i suoi 200 uomini di scorta. Intanto la guarnigione di Cologna Veneta venne nuovamente sopraffatta, e i padovani riuscirono a catturare alcuni vessilli scaligeri.

Il castello di Pojana

Fino a questo punto la guerra si era svolta con razzie e piccole scaramucce, nonostante la superiorità economica di Padova e l’importante aiuto militare degli alleati, anche perché Cangrande evitò lo scontro campale, date le superiori forze nemiche. Dopo che nel giugno 1312 anche a Modena avevano preso il sopravvento i guelfi, Padova decise di portare una grande spedizione contro Vicenza, che poté marciare relativamente tranquillamente fino a raggiungerla, mentre Cangrande si trovava a Verona. Qui i padovani cominciarono a saccheggiare i sobborghi cittadini, e riuscirono, in questa occasione, a reincanalare il Bacchiglione. Dato che Vicenza non voleva arrendersi, l’esercito venne spostato per conquistare Pojana, un importante castello sulla strada che da Padova porta a Vicenza, il quale venne espugnato dopo un breve assedio. Impossessatisi del castello, a fine luglio l’esercito ritornò a Padova.

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